Italia centrale,1860: una guerra lampo ridimensiona lo Stato della Chiesa




In questa guerra si affrontarono due eserciti che erano diversi sotto molti aspetti. Quello pontificio si componeva di 23.000 uomini, di cui 5 battaglioni di bersaglieri austriaci, 2 reggimenti di linea svizzeri, 1 battaglione di zuavi e franco-belgi, 1 battaglione di irlandesi, 12 batterie da campagna per due terzi austriache, 3 squadroni di cavalleria; erano poi da aggiungervi anche 4.000 gendarmi divisi in due battaglioni di linea e 2 battaglioni di cacciatori. Il primo elemento che emerge osservando la consistenza delle truppe del Papa è sicuramente, oltre all'esiguità, è la sua eterogeneità etnica. Certamente si tratta di soldati abituati a combattere per potenze straniere. Un aspetto singolare degli atti che indicavano i documenti necessari per l'ammissione nella Milizia pontificia, era quello che prevedeva che la recluta che presentasse al Consiglio di reclutamento "una recluta accettabile" ricevesse il premio di 2 scudi; era evidente che si cercava in ogni modo di ingrossare le fila dell'esercito.
Il Piemonte dal canto suo poté mobilitare 40.000 soldati, suddivisi in due corpi al comando dei quali erano il generale Cialdini e il generale Fanti, entrambi della provincia i Modena ed integrati nell'esercito sardo-piemontese, i quali raggiungeranno poi i più alti vertici gerarchici del futuro esercito italiano.

De Pimodan
Cialdini
Nel settembre 1860 iniziò l'avanzata da nord delle truppe comandate da Cialdini. L'11 settembre cadde Urbino, 12 Fano e Pesaro, e il 13 fu la volta di Senigallia. La parte settentrionale delle Marche capitolò con facilità, opponendo flebili resistenze; benché il governo pontificio in quel punto non fosse sguarnito di truppe, come dimostrano le lettere inviate dalla Commissione amministrativa di Pesaro e Urbino al Delegato Apostolico, in cui già dall'aprile 1859 si richiedeva un aumento delle dotazioni per far alloggiare la Brigata Gendarmi che cresceva di numero. Al generale La Moriciere, comandante in capo delle truppe pontificie, non restava allora che lasciare l'Umbria al generale Schmidt e, a al fine di evitare l'accerchiamento, dirigersi insieme al generale De Pimodan in direzione di Ancona, cercando di riorganizzare le truppe e opporre una strenua resistenza. La guerra trova il suo epilogo con la nota battaglia di Castelfidardo, alla vigilia della quale, il 17 settembre 1860, De Pimodan disse: <Domani o tutti in Ancona o tutti in paradiso>. E almeno per se stesso e parti dei suoi uomini, azzeccò la profezia: il generale stesso, infatti, cadde sul campo di battaglia. Vigeva una disparità di trattamento verso il nemico se questi fosse francese o meno, il generale Cialdini infatti consegnò la salma e la spada di De Pimodan ai pontifici perché fosse trasferita a Roma; lo stesso avvenne per tutti i soldati francesi fatti prigionieri e per i quali s mobilitò addirittura Cavour ai fini di un pronto rimpatrio. Eloquenti furono le rassiucranti parole che lo statista scrisse alla contessa Circourt: <qualunque sia la causa che ha fatto loro prendere le armi contro di noi, non possiamo dimenticare che essi appartengono alla nazione che ha contribuito per la nostra liberazione>. Doveva essere un segno emblematico di gratitudine verso la Francia, visto che Napoleone III, inizialmente contrario all'invasione dell'Umbria e delle Marche, ritirò poi ogni minaccia di intervento armato, inasprendo lo sdegno di Pio IX e costituendo probabilmente le condizioni per il prodursi degli avvenimenti.
A Castelfidardo persero la vita 88 pontifici e e 62 sardo-piemontesi.

Scoppio della lanterna di Ancona
Il 25 settembre Ancona veniva attaccata per mare dall'ammiraglio Persano e via terra da Cialdini, scatenando un'accanita risposta dei pontifici culminata nell'eroica difesa della lanterna e della polveriera, che centrata da un colpo di artiglieria esplodeva sotterrando i soldati papalini. Il 29, dopo inutili scontri il generale Lamoriciere innalzava la bandiera bianca e la piazzaforte di Ancona cadeva nelle mani dei piemontesi; gli ultimi vani tentativi di difesa sono descritti dal bersagliere Fabio Pariset: <Si entrò nei sobborghi della città; ma appena colà giunti, ci scambiammo alcune fucilate. Sorse l'alba, indi quei pochi nemici che ancora trovavansi nelle vie, si ritirarono nel forte. Innalzarono poi il vessillo di pace e vennero a parlamento. Si accordarono nei patti e il presidio di Ancona restò tutto nostro prigioniero>. Sull'episodio del bombardamento di Ancona, è singolare la dichiarazione del generale Fanti pubblicata sulla Gazzetta ufficiale del Regno e ripresa da Civiltà Cattolica, secondo il quale nonostante il Fanti vide <sventolare sulla fortezza una bandiera bianca, onde togliere titubanza al nemico e accelerare la resa (ordinò) che alle dieci di sera si aprisse il fuoco su tutta la linea>Alla fine 7.000 soldati, 345 ufficiali e 3 generali furono fatti prigionieri e 154 pezzi di artiglieria e 180 cavalli requisiti. Lo Stato pontificio, caduta Ancona, perse le Marche alle quali era da aggiungersi l'Umbria.
Lo Stato della Chiesa si vedeva gravemente leso e mutilato nella propria integrità. Meno di un mese era bastato perché tutto ciò si compisse senza che le potenze cattoliche, Francia e Austria in primo luogo, muovessero un dito per evitare che il potere temporale del Papa fosse ormai confinato ad una ristretta porzione territoriale.




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